Un ripasso di storia
di Pino Di Miceli
			“Garibardi 
			fu feritu, fu feritu nto vuddicu, c’affacciau un peri ficu…”
			Così cantavamo cinquant’anni fa, allorquando per le strade di 
			Mezzojuso intendevamo cimentarci - con innocente ironia - con canti 
			ed inni risorgimentali.
			Dai versi viene fuori una lettura tra il mitico e l’ironico, come, 
			del resto, il mito da un lato (la spedizione di due anni prima già 
			diventata mitica e quindi, magicamente, da ripetere) e la realtà 
			molto più prosastica (terra terra) si rivelarono le costanti 
			dell’operazione garibaldina che nel 1862 fu fermata sull’Aspromonte. 
			Cascàmi, cascàmi di storia, e di interpretazione storica, decaduta a 
			livello popolare, direbbe qualcuno. 
			Eppure… eppure non è così e ne abbiamo parlato in un precedente 
			scritto. Perché lì c’è l’incontro tra la macro e la micro storia.
			
			La mia generazione è cresciuta negli anni della scuola elementare 
			con la retorica risorgimentale. Era talmente pervasiva che non te ne 
			accorgevi. Era una retorica da libro Cuore ancor viva dopo più di 
			settanta anni dalla sua pubblicazione.
			Già nei primissimi anni della scuola elementare ci catapultò addosso 
			il centenario dell’unificazione nazionale, con la distribuzione agli 
			alunni di un libretto celebrativo e una visita degli eredi di 
			Garibaldi ai luoghi che videro combattere in Sicilia l’eroe dei due 
			mondi, loro antenato.
			La visita a Mezzojuso di uno dei discendenti di Garibaldi fu per me 
			traumatica, per un semplice motivo: all’uscita dall’edificio 
			scolastico quell’omone - alto, solenne e barbuto - salì veloce, col 
			suo seguito - probabilmente parenti - su una grossa automobile sul 
			cui lunotto posteriore giaceva una spada… una spada gialla, di 
			plastica: che delusione!
			Fu un autentico trauma! Per me Garibaldi era quello delle 
			illustrazioni del sussidiario, con Andrea Rao come suo 
			rappresentante mezzojusaro: ma con una spada vera! Ebbene, 
			quell’episodio sembra la metafora di ciò che hanno vissuto le ultime 
			generazioni di ragazzi, studenti e giovani a proposito del 
			Risorgimento italiano. Ci avevano abituati alle poesie di Giusti 
			(Sant’Ambrogio), di Mercantini (La spigolatrice di Sapri), all’Inno 
			di Garibaldi, a Fratelli d’Italia, ma anche a tutto ciò che per 
			quella retorica poteva riferirsi all’orgoglio nazionale: Va’ 
			pensiero, O Signore, dal tetto natìo, dei Lombardi alla Prima 
			Crociata. Oppure: “Suoni la tromba e intrepido io pugnerò da forte, 
			bello è affrontar la morte, gridando libertà” (dai Puritani di 
			Bellini) ed ancora: “Quando passano per via gli animosi bersaglieri, 
			sento affetto e simpatia, pei gagliardi militari”, ecc.
			Questi canti e quelle poesie riempivano i nostri saggi ginnici di 
			fine anno scolastico o di fine mese (alle colonie estive) davanti 
			alle autorità religiose, civili e militari. Assieme alle scultoree 
			frasi: O Roma o morte, Obbedisco, Tirremm innanz, Fatta l’Italia, 
			bisogna fare gli italiani, Viva Verdi!, ecc. Insomma, buona parte 
			della retorica fascista – mutatis mutandis - era ancora tutta l.. 
			Bei tempi, dice ancora qualcuno e non riesci a distinguere se per 
			nostalgia o per nostalgie. Mancava un aspetto in tutto 
			quell’orizzonte: la storia locale o, meglio, l’intrecciarsi tra la 
			micro e la macro storia nelle nostre contrade nel periodo 
			risorgimentale. Ed è proprio questa la cifra dei decenni che videro 
			la nostra comunità mezzojusara impegnata in maniera diretta e 
			costante nel movimento risorgimentale. Ne ha scritto in maniera 
			dignitosissima il nostro caro Ignazio Gattuso nell’opera Spigolature 
			Risorgimentali, un libro che nessuno sfoglia anche se ristampato, 
			assieme alle altre opere, appena pochi anni fa. Ed il Gattuso ci 
			farà compagnia in questo breve scritto.
			La nostra storia inizia non in paese, ma in campagna, in una delle 
			contrade dove alcuni concittadini, avendo costituito una vendita 
			carbonara, si incontrano e da dove partono “missionari” della causa: 
			uno è fermato a Villalba dalla polizia borbonica: gli trovano un 
			catechismo della carboneria. E così si viene a sapere che anche il 
			principe di Mezzojuso, l’ultimo dei Corvino, Francesco Paolo, ne fa 
			parte. Siamo nella prima metà degli anni venti del XIX secolo. 
			Controllati dalla polizia, escono allo scoperto nel 1848. Si 
			preparano le squadre, pronte ad intervenire al primo allarme in 
			città. Si dà il proprio apporto fattivo nella “rivoluzione” 
			siciliana e in quella che si continua a chiamare la Prima Guerra 
			d’Indipendenza: diversi mezzojusari infatti partono volontari per il 
			nord. Tra i tanti che si distingueranno a Palermo ricordiamo Dario 
			Battaglia, medico notissimo in città (curerà anche la zarina di 
			Russia). Ma l’episodio più eclatante, anche come eco che sbarcherà 
			in continente, è quello legato alla vicenda di Francesco Bentivegna. 
			Me preme, en passant, ricordare che uno dei luoghi di cospirazione 
			anti borbonica fu per gli arbresh di Sicilia il seminario di 
			Palermo. Idee e sentimenti libertari erano poi comuni ai giovani 
			intellettuali calabro-albanesi, fin dai tempi napoleonici. 
			Ebbene,sulle vicende di Bentivegna è presente questo miscuglio di 
			ascendenze culturali: sicilianissimi protagonisti, misti a focosi 
			parenti di papàs. La vicenda di Bentivegna dimostra come la 
			definizione di Risorgimento - come lotta di popolo o di pochi 
			intellettuali - sia ancora da riaprire. E’ di pochi anni fa la 
			commemorazione della fucilazione del Bentivegna nella piazza di 
			Mezzojuso. Dopo una partenza in sordina, si arriv. a una sinergia 
			con il comitato di Corleone con uno scambio di iniziative culturali 
			(presentazione di libri, mostra di pittura, spettacolo musicale sul 
			Risorgimento). Un episodio di cui si parla poco è quello legato al 
			convento della Gancia a Palermo. Il 4 aprile del 1860 al suono della 
			campana del convento scoppia una rivolta guidata da Francesco Riso. 
			Il moto è subito represso con una ventina di morti. Altri tredici 
			verranno in seguito fucilati. Tra essi il mezzojusaro Michelangelo 
			Barone. Questo episodio a quanto sembra farà rompere gli ultimi 
			indugi a Garibaldi per la sua impresa in Sicilia. Sull’attiva 
			partecipazione dei mezzojusari all’impresa dei Mille l’opera del 
			Gattuso a questo punto è abbastanza meticolosa nella narrazione dei 
			fatti e nell’individuazione dei protagonisti. Non tacerei, per in 
			questo pur semplice articolo, del proclama di La Masa ai 
			mezzojusari, segno che anche i nostri più diretti antenati, nei 
			riguardi dell’impresa garibaldina, nutrivano speranze che andavano 
			ben al di là di un semplice cambiamento di governo. Queste stesse 
			speranze saranno espresse da l. a due anni alla Ficuzza, quando 
			all’inizio dell’agosto del 1862 si alternarono le grida di “O Roma o 
			morte!” da un lato e di “Pane, pane” dall’altro. Il Gattuso continua 
			poi con la venuta di Garibaldi a Mezzojuso, con un accenno al 
			brigantaggio dalle nostre parti e con il contributo mezzojusaro alla 
			rivolta del Sette e Mezzo del 1866. Sarebbe proprio da rileggere 
			tutta questa storia. Senza enfasi, anche perché in tono molto pacato 
			l’ha scritto il Gattuso. Un modo non retorico di celebrare i primi 
			centocinquanta anni del nostro Stato. Un ripasso di storia, che non 
			è solo locale. Un altro ripasso ben più approfondito sarebbe poi da 
			fare su cosa abbiamo messo e/o hanno messo nella nostra valigia una 
			volta intrapreso il viaggio postunitario. Cosa è stata Mezzojuso 
			dopo l’unificazione nazionale? Quale apporto volontario, forzato, 
			consapevole o distratto abbiamo dato allo sviluppo della comunità 
			nazionale? E quale contributo ha dato la comunità nazionale al 
			nostro sviluppo? Qui il Gattuso non può aiutarci più. Dobbiamo 
			chiamare in causa la nostra onestà intellettuale e soprattutto 
			umana. Il discorso si complica. Abbiamo offerto braccia e vite per 
			fabbriche e guerre. Siamo stati punti di riferimento per i comuni 
			vicini per poi crollare improvvisamente. Abbiamo prodotto 
			generazioni di intellettuali che si sono affermati anche in campo 
			nazionale e nello stesso tempo la fame, la malattia, la 
			superstizione ci abbrutivano. Abbiamo litigato tra greci e latini 
			per qualche processione ma adesso sappiamo coltivare la memoria 
			culturale come pochi. Siamo stati ubbidienti e supini di fronte al 
			potere ma qualche scatto d’orgoglio ha caratterizzato i nostri tempi 
			migliori. E via di seguito. Sono degli esempi personalissimi, delle 
			rappresentazioni non esaustive. Ognuno può espungere, aggiungere, 
			modificare. Ma abbiamo un’emergenza: le nuove generazioni. E’ ancora 
			possibile offrire tutto questo o dobbiamo cercare, assieme, altre 
			vie? Sbrighiamoci perché “a cira squagghia, ma a pricissioni un 
			camina!” 
			
		